La Grecia, sei anni dopo, e la crescita dell’Italia

La Grecia, sei anni dopo, e la crescita dell’Italia

Vittorio Daniele

Pensare in estate alla Grecia fa venire in mente le bianche spiagge di Cefalonia o Mykonos. L’altra Grecia, quella della crisi economica, del default, delle proteste di piazza sembra ormai lontana. Eppure non è così. La crisi ha prodotto drammatiche conseguenze sociali e lasciato segni profondi sull’economia. Guardare alla Grecia di oggi per noi europei e italiani è istruttivo. La vicenda greca illustra, in maniera paradigmatica, ciò che può accadere in un’economia con strutturali squilibri e gravi disfunzioni; ma mostra anche quali siano le conseguenze delle politiche d’austerità in un sistema, quello europeo, in cui disciplina e vincoli di bilancio non trovano adeguato bilanciamento negli strumenti di politica economica.

Somministrate in corpore vili e con draconiano rigore, le politiche d’austerità imposte dalla Troika avrebbero dovuto riportare l’equilibrio nei conti pubblici e porre le basi per la crescita. Risanamento fiscale e crescita: obiettivi non facili da conciliare, almeno nel breve periodo. Eppure il convincimento che fosse possibile, che la strada delle restrizioni fiscali avrebbe condotto, dopo qualche aggiustamento e qualche spiacevole ricaduta sociale, alla crescita aveva un  presupposto teorico apparentemente solido: la tesi dell’austerità espansiva. Una tesi coerente con i postulati ortodossi,  secondo la quale politiche fiscali restrittive, cioè tagli alla spesa pubblica e inasprimenti di imposte, hanno effetti positivi su consumi e investimenti. Come la pietra filosofale dell’economia, l’austerità espansiva avrebbe trasmutato un taglio di spesa in uno stimolo di domanda, smentendo le semplici, meste conclusioni del modello keynesiano, secondo cui politiche di austerità attuate quando le economie sono in recessione ne aggravano, non alleviano, le conseguenze.

Ma ritorniamo alla Grecia. In soli sei  anni, dal 2008 al 2013, il Pil greco è diminuito, cumulativamente, di 26 punti percentuali. Mai un paese sviluppato aveva subito una così severa recessione, senza crescere per sei anni consecutivi. Una caduta del prodotto di tale entità si traduce necessariamente in una drammatica riduzione del tenore di vita medio. Il reddito reale per abitante è calato del 20 per cento, mentre il tasso di disoccupazione, salito costantemente dall’inizio della crisi, ha superato il 27 per cento. Per quasi la metà delle famiglie greche le pensioni rappresentano l’unica fonte di reddito, sebbene un terzo dei pensionati percepisca 360 euro lordi mensili.

Per quanto deprimente, la macrocontabilità rende solo in parte la tragedia sociale. Secondo le stime dell’Università di Atene, il 44 per cento dei greci vive oggi in condizione di povertà relativa. Nel suo ultimo rapporto, l’Unicef ha calcolato che un bambino greco ogni tre è a rischio di povertà o di esclusione sociale. Si tratta di 686mila bambini, il 35,4 per cento dei bambini greci. Le cause? Disoccupazione e tagli al sistema di welfare. Sono 292mila i bambini che vivono in famiglie in cui entrambi i genitori sono disoccupati e che non hanno accesso a servizi di assistenza e cura. Del resto, ridimensionamento del welfare (razionalizzazione, eufemisticamente) e tagli alla sanità tipicamente rientrano nella posologia del consolidamento fiscale. Così per la Troika, nei suoi “Memorandum of understanding” per Grecia e Portogallo. Di ciò  − si ricorderà− si era avvertita un’eco anche in Italia, sub Monti. In Grecia, l’obiettivo – quasi raggiunto – del dimezzamento della spesa farmaceutica, e la riduzione di oltre un quarto di quella ospedaliera, non è stato senza conseguenze. Quali siano, le descrive uno studio pubblicato su Lancet, una delle più autorevoli riviste mediche al mondo: aumento delle malattie infettive più gravi, inclusi HIV e tubercolosi, della depressione maggiore, dei suicidi. Nel 2008, anche la storica tendenza alla riduzione della mortalità infantile si è interrotta e i tassi di mortalità neonatale e postnatale sono aumentati.

Ma qual è la condizione delle finanze pubbliche? Nel 2008, il debito pubblico era il 122 per cento del Pil. Nel 2013, aveva raggiunto il 175 per cento. Le previsioni per l’anno in corso sono di un ulteriore aumento. Secondo la Commissione europea, raggiunto il picco del 177 per cento, a partire dal 2015, il rapporto tra debito e Pil dovrebbe cominciare a scendere, grazie a finanze pubbliche più sane e alla (possibile) crescita economica. È prevedibile che i tempi della ripresa siano, però, assai lunghi. Quanto lunghi, non è possibile saperlo. Del resto, tanto più le previsioni economiche scrutano nelle nebbie del futuro, tanto più somigliano a quelle degli aruspici che traevano presagi dal volo degli uccelli.

La Grande recessione segnerà a lungo i paesi europei. Durante le recessioni non si distruggono solo posti di lavoro, ma calano anche gli investimenti in capitale e tecnologia. Si riduce, così, ciò che gli economisti chiamano “produzione potenziale”, il livello normale della produzione che dipende dalle risorse e dalla tecnologia disponibili. Al termine della recessione, un paese si ritrova con una capacità produttiva inferiore a quella pre-crisi. Secondo l’economista Laurence Ball, della Johns Hopkins University, la Grande recessione determinerà effetti duraturi in tutti i paesi che ne sono stati colpiti, Italia inclusa. Per le 23 nazioni considerate dallo studio di Ball, nel 2015 la perdita del Pil potenziale rispetto al livello pre-crisi è stimata nell’8,4 per cento: per avere un’idea, è come se si perdesse la produzione della Germania. Per l’Italia, la perdita stimata di prodotto potenziale per il 2015 è del 12 per cento, per la Grecia del 35 per cento.

La questione cruciale è se questo danno sia reversibile. La risposta dipende, in larga misura, dalle scelte di politica economica. Un’espansione degli investimenti e dell’occupazione potrebbe spingere il prodotto di nuovo verso il suo livello potenziale, o almeno ridurre l’entità della perdita. Se si guarda all’Europa, che ciò possa accadere è, allo stato attuale, improbabile. C’è il rischio, però, che se la crescita continuerà ad essere a lungo così lenta, in molti paesi i costi sociali ed economici divengano davvero troppo alti. Sarà molto difficile, allora, ignorarli.